Ritorniamo sulla cosiddetta “lettera della maturità”, scritta da Freud all’amico Emil Fluss la notte del 16 giugno 1873, a conclusione dell’esame di maturità. Ce ne siamo già occupati in riferimento allo “stile idiotico” di Freud, ma il suo olografo contiene altri elementi di interesse.
Secondo la traduzione pubblicata da Boringhieri, in questa lettera Sigmund Freud riferirebbe della traduzione dal greco per l’esame di maturità con queste parole:
Il lavoro di greco, per il quale ci era stato dato un passo di trentatré versi dell’Edipo Re, è riuscito meglio, lodevole.1
Diversamente Ernest Jones, che pure consultava l’edizione a stampa del 1941 e forse, stando a quanto racconta Ernst Freud, anche l’olografo, parla di “ventitré versi”.2 Non si tratta di un refuso dell’edizione italiana, come si evince dalla consultazione dell’originale inglese della biografia di Jones 3. Le versioni a stampa consultate sono concordi nell’indicare i trentatré versi, in cifra o in lettere. Viene spontaneo quindi interrogare la pagina originale.
Il passaggio è così trascritto a stampa in tedesco presso la Library of Congress:
Die griechische Arbeit, für die eine 33 Verse lange Stelle aus dem König Ödipus vorlag, gelang besser, lobenswert.
Ma vediamo cosa scrive realmente il giovane maturando:
Il brano si trova al fondo della seconda facciata della lettera e anzitutto si può ben vedere che il numero dei versi è indicato in cifre.
Quale sorpresa però quando si constata che l’originale non consente di dare ragione né a Jones con i suoi ventitré versi, né a tutti gli altri che scrivono “trentatré” (o “33”): Vi si legge infatti un chiaro “53”.
Si noterà poi che “König Ödipus” (“Edipo Re”) non ha alcun segno distintivo e ciononostante è andato incontro a due destini differenti nelle diverse edizioni: infatti in quelle italiane e nelle inglesi è scritto in corsivo, ma senza specificazione alcuna che si tratta della classica scelta editoriale in caso di titoli di opere letterarie, mentre nelle tre tedesche e nella trascrizione della Library of Congress comprensibilmente non viene distinto dal resto della lettera.
Il breve passaggio reclama ulteriori attenzioni per via di alcuni curiosi errori in esso contenuti.
Anzitutto si noterà che la prima cifra del “53” è parzialmente corretta, attraversata com’è nella sua metà superiore da una linea verticale.
In secondo luogo si può osservare la posizione di “König”, sospetta in quanto eccentrica rispetto al margine sinistro della scrittura di Freud che di riga in riga va progressivamente rientrando rispetto al bordo sinistro del foglio. Mi viene così il sospetto che sia stato prima dimenticato e dunque inserito in seconda battuta.4
Subito dopo si presenta il terzo e ultimo errore commesso da Freud, che scrive “vorlang” invece di “vorlag”, un lapsus calami non riportato da alcuna edizione, nemmeno da quella inglese del 1969, che afferma di avere “stabilito incontrovertibilmente” il testo della lettera. Mentre “vorlag” è voce del verbo “vorliegen” (“esserci”), “vorlang” parrebbe rimandare al desueto verbo “vorlangen” di cui però non è voce, in quanto al più lo sarebbe “vorlangt”. E così, comunque ci si giri, si trova un errore: scrivendo “vorlang”, Freud ha sbagliato perché intendeva “vorlag” oppure “vorlangt”. Come minimo un’omissione è stata poi commessa da chi ha trascritto la lettera, vuoi per l’edizione del 1941, vuoi in qualche successivo momento. Ma qual è il significato di “vorlangen”? Secondo il ricco vocabolario dei fratelli Grimm, esso equivale ai latini “promere” ed “expromere”, che tra i vari significati hanno anche quello di estrarre, tirare fuori. Il verbo in sé, dunque, si adatterebbe anche al nostro contesto:
Die griechische Arbeit, für die eine 53 Verse lange Stelle aus dem König Ödipus vorlag/vorlangt, gelang besser, lobensw[ert] (corsivo mio).
Passaggio che potremmo rendere, intendendo “vorlag”: “Il lavoro di greco, per il quale c’era un passo di 53 versi dall’Edipo Re, è riuscito meglio, lodev[ole]”. Volendo invece intendere “vorlangt”: “Il lavoro di greco, per il quale [era stato] estratto un passo di 53 versi dall’Edipo Re, è riuscito meglio, lodev[ole]”.
Come si vede, in questa seconda versione non solo bisogna correggere la voce verbale di Freud, come fanno, pur senza dichiararlo, tutte le altre edizioni a stampa, ma occorre anche considerare implicito l’ausiliare “sein” (“essere”) o “wurden” (“diventare”, impiegato di norma per la costruzione delle forme passive). Quel che si guadagna è una doppia finezza stilistica. Anzitutto il passivo con ausiliare implicito, ma soprattutto il ricorso a un verbo ricercato, cosa che, traducendo i primi lavori di Freud, mi accorgo sempre più non essere evento raro.
Riassumendo, dunque: la correzione della cifra “5” nel numero “53”, la sospetta posizione del sostantivo “König” (“Re”) e infine il “vorlang”, che necessita in qualunque caso di una correzione.
Tre “inciampi” in una frase sono decisamente troppi per pensare a una casualità e richiedono a mio parere una spiegazione, cui devo tuttavia far precedere qualche commento sul secondo passaggio della lettera, quello sullo stile idiotico, dal quale siamo partiti. Eccolo nell’originale, a metà della terza facciata:
Già a una prima scorsa si osserva che questo passaggio ha subito diverse correzioni, segno senz’altro di una qualche incertezza del giovane autore. Quindi per prima cosa lo trascrivo cercando di riportare i vari interventi operati da Freud sul testo e rispettando gli a capo dell’olografo.
Mein Professor sagte mir zugleich,
u[nd] er ist der erste Mensch, der sich unterstehen,
das
mir so etwas zu sagen – daß ich das hätte,was Herder so schön einen idiotischen Styl
einen, Styl5
nen[n]t habe, di. en der zu gleich correct u[nd] characteristischwäre. ist. (parentesi quadre mie)
Delle quattro versioni tedesche che ho consultato, la più fedele è la trascrizione a macchina conservata alla Library of Congress. Nessuna, beninteso, riferisce delle numerose correzioni apportate in corso di stesura da Freud e le due più recenti ripuliscono il testo dalle abbreviazioni che contiene, fatto salvo il “di” (“das ist” che significa “ossia”, “cioè”), mantenuto dalla trascrizione e dall’edizione del 1941 probabilmente solo in quanto abbreviazione usuale in tedesco. Infatti in entrambi i casi è riscritta nella forma più consueta, cioè puntando entrambe le lettere: “d.i.”. La trascrizione conserva inoltre, come detto, la sottolineatura di “idiotischen”. Infine, dalla proposizione “daß ich das hätte”, le due versioni a stampa del 1960 e del 1971 fanno scomparire ingiustificatamente il “das”.
Il primo risultato della consultazione dell’olografo è dunque senz’altro quello di confermare che Freud dà un particolare valore non tanto al fatto che il suo stile sia “corretto e caratteristico”, ma che sia “idiotico”: motivo in più per deplorare anzitutto l’esclusione di questo termine dall’edizione inglese del 1969.
In secondo luogo possiamo ben constatare quanto il manoscritto non solo sia più ricco di suggestioni, indicazioni e informazioni rispetto alle versioni a stampa disponibili, ma soprattutto come a volte sia facile, nel ripetersi delle edizioni, quando le più recenti poggiano sulle più datate e non sulle fonti originali, tanto il tramandarsi di sviste ed errori, quanto il loro accumularsi.
Sfruttiamo dunque la possibilità di indagare quanto realmente scrive, o meglio cerca di scrivere Freud. Propongo di seguito una mia traduzione:
Il mio professore mi ha anche6 detto,
ed è la prima persona che ha l’avventatezza
ciòdi dirmi qualcosa del genere – che io [proprio] questo7 avrei,
quello che Herder così brillantemente8 ho chiama uno stile idiotico,
uno, stile
ossia un che sarebbe è al contempo corretto e caratteristico.
Le varie correzioni operate da Freud si prestano a diversi commenti che vorrei qui limitare ad alcune brevi considerazioni. Se già il loro concentrarsi in queste poche righe indica una qualche difficoltà del loro autore nell’esprimere ciò che vuole, due di esse suggeriscono fortemente che questa difficoltà abbia a che fare con il riconoscersi espressamente la qualità del suo stile, l’idiotismo: in un caso, infatti, egli scrive dapprima “qualcosa del genere”, ossia resta sul vago, e solo in seconda battuta corregge con “ciò”, dunque con una più netta affermazione. In chiusura, poi, opta dapprima per il congiuntivo (“sarebbe”), modo della possibilità, per poi correggerlo con l’indicativo (“è”), modo della certezza.
Non è del resto curioso che proprio mentre si appresta a parlare dell’eleganza del suo stile, Freud si trovi a corto di ispirazione dovendo più volte tornare a correggere? Si consideri che una delle parole chiave del passaggio, “stile”, in un’occasione subisce addirittura due correzioni: viene posta infatti in seconda battuta e per giunta sovrapposta a una precedente parola. Più avanti potremo rispondere con maggiore agio alla domanda.
Chi abbia la pazienza di visionare le cinque scansioni dell’olografo, per un totale di sette facciate, scoprirà che solo un altro passaggio rivela correzioni ancor più massicce di quello appena indagato. Non possiamo esimerci dall’esaminarlo, sia per il suo contenuto sia perché monco nelle versioni da me considerate, nessuna delle quali si premura di segnalare almeno in nota l’importante espunzione. Eccolo nell’originale, all’inizio della sesta facciata:
Come si vede, Freud non si limita a tirare una riga su questa frase, ma ci si accanisce come nell’intento di annullarla. Proprio per questo essa più di altre ci segnala le titubanze di Freud. Vediamo dunque cosa racchiude.
Essa appartiene a un passaggio molto profondo della lettera, in tal senso non sfuggito a Ilse Grubrich-Simitis e a Marco Conci,9 nel quale si manifesta con sorprendente chiarezza ed acume la capacità introspettiva di un Freud diciassettenne, una sorta di preludio a quella che, decenni più tardi, diverrà l’autoanalisi. In particolare, la parte cancellata recita, con rispetto degli a capo e con tutte le incertezze di un leggere – letteralmente – tra le righe:
Kan[n] er nicht zb ehrlich
sein, sich eine Empfindung nicht zu verbergen[,]
die ihn unangenehm sein muss, wen[n] sie
wahr ist?
Ossia:
Non può ad es.
essere egli onesto nel non nascondersi una sensazione
che deve essergli sgradevole se
è vera?
Non resta ora che inserire queste righe nel loro contesto, operazione che ci consentirà di cogliere, oltre alla significatività di questo passaggio della lettera, anche un errore commesso dai precedenti trascrittori e insidiosamente tramandatosi di edizione in edizione.
Qui le righe precedenti, prive della minima esitazione o correzione da parte dell’autore:
Meine ‘Besorgnisse für die Zukunft’ nehmen Sie zu leicht. Wer sich nur vor Mittelmässigkeit fürchtet, ist schon geborgen, trösten Sie mich. Wovor geborgen, muß ich fragen; doch nicht geborgen u[nd] versichert, daß er nicht irrt? (corsivo mio).
La proposizione finale, che ho evidenziato con il corsivo è diversamente riportata nelle edizioni tedesche a stampa: “daß er’s nicht ist”, letteralmente “che egli non lo è”. Ma se anche si può confondere “irrt” con “ist”, la consultazione dell’olografo mostra palesemente che dopo “er” non c’è alcun apostrofo e nessuna “s”. Suppongo che dapprima vi sia stato l’errore di lettura “ist” vs. “irrt” e che giunti così a leggere: “dass er nicht ist”, “che egli non è”, sia stato necessario interpolare forzosamente un “es” apostrofato, per cercare di rendere più intelligibile la proposizione. Ma anche questa manovra non è stata sufficiente, tant’è che nessuna traduzione lascia inalterato il pronome “es”, ma procede ad una terza forzatura, in qualche modo giustificata dal contesto, e sostituisce il pronome con il sostantivo “mediocre”. è così che da un per nulla problematico “che egli non erra/sbaglia” (oppure: “di non sbagliare”) si passa a un “che egli non lo è” poi concretamente reso come: “di non essere mediocre” (nelle due versioni italiane) “from being mediocre”, nella versione inglese del 1960, e “that he is not mediocre”, in quella del 1969.
Dopo la parte cancellata, il ricco capoverso continua:
Was verschlägt’s, ob Sie etwas fürchten oder nicht? Ist nicht die Hauptsache, ob es wahr ist, wie wir’s fürchten? Wohl wahr, daß auch stärkere Geister vom Zweifel an sich selbst ergriffen werden; ist darum jeder der sein Verdienst in Zweifel zieht, ein starker Geist? Er kan[n] ein Schwächling an Geist sein, nur ein ehrlicher Man[n] dabei aus Erziehnug [corretto da un precedente “Erzehung”], Gewohnheit oder gar aus Selbstqual. (parentesi quadre mie)
A questo punto il passo completo, integrato con la parte “censurata” da Freud, che riporto in corsivo, suona così:
Le mie “preoccupazioni per il futuro”, le prendete troppo alla leggera.10 Chi ha paura solo della mediocrità è già al riparo, mi rassicurate. Al riparo da cosa, devo domandare; non certo al riparo e sicuro di non sbagliare? Non può ad es. essere egli onesto nel non nascondersi una sensazione che deve essergli sgradevole se è vera? Cosa importa che Voi temiate o meno qualcosa? La cosa più importante non è se sia vero per come lo temiamo? Ben vero che anche spiriti più forti vengono afferrati dal dubbio su se stessi; è per questo uno spirito forte chiunque metta in dubbio il proprio valore? Può essere un debole di spirito, soltanto un uomo in questo onesto, per educazione, per abitudine o addirittura per autotortura (corsivo mio).
Queste righe si prestano a molte riflessioni, sia prese in sé, sia in connessione con i passaggi della lettera precedentemente considerati.
Anzitutto mi pare evidente che Freud stia qui parlando di sé: il capoverso infatti prende avvio dalle “mie” preoccupazioni per il futuro: possiamo supporre che Freud avesse parlato all’amico di sue paure di restare o diventare un mediocre (non certo nella lettera immediatamente precedente a noi rimasta, quella del 1° maggio 11), ricevendone per tutta risposta un poco convincente conforto. Ma si noti anzitutto come egli non riesca a conservare il diretto riferimento a sé: dapprima scrive in terza persona (“Non può ad es. [egli] essere…”), poi, rendendo attore direttamente l’amico, passa alla seconda persona, pur mediata dalla consueta formula di cortesia (“Cosa importa che Voi…”); poi si riavvicina a una posizione più personale impiegando sì la prima persona, ma plurale (“temiamo”); di nuovo si allontana e diluisce il tutto in un collettivo impersonale di uomini evidentemente deboli e dunque mediocri (“chiunque metta in dubbio…”), per finire tornando a una terza persona, non meglio specificata (“un uomo…”), ma comunque mediocre (“un debole di spirito…”). Oscillazioni rivelatrici, così come lo è la frase dapprima scritta e poi cancellata (che altro non è che una prima versione della frase conclusiva del capoverso come mostra tra l’altro la presenza in entrambi i passaggi dell’aggettivo “ehrlich”, ossia “onesto”) poiché realizza proprio nella sua doppia qualità di presenza/assenza il doppio movimento dell’avvicinarsi di Freud a una qualche “sensazione che deve essergli sgradevole se è vera” e dell’allontanarsi dalla netta presa di coscienza attraverso una negazione realizzata con la non meno netta cancellazione.
Freud dunque dubita del proprio merito, ma evidentemente non gli piace l’affiorare di questa sensazione. Né gli basta pensare che molti grandi uomini, molti “spiriti più forti”, si siano messi in discussione: infatti il suo dubitare potrebbe essere semplice onestà, oppure pura formalità (educazione, abitudine), oppure ancora autotortura. Per Freud evidentemente la prima ipotesi appare come quella più spaventosa e forse per questo viene in prima battuta cancellata: se infatti il dubbio è onesto e coglie una verità, allora per lui non c’è più nulla da fare: mediocre è e mediocre resterà. Ma per noi è la terza e ultima a rivelarsi assai più interessante, sia perché è l’unica che fa riferimento a una qualche dinamica interna, sia perché è possibile individuare diverse altre tracce di un Freud soggetto ad autotortura.12 Me ne sono occupato in altre sedi, analizzando in dettaglio il periodo compreso tra la fine del 1885 e il 1897 e, confortato anche dalla considerazione di un biografo di Freud, Peter Gay, che segnala il carattere non solo severo ma addirittura punitivo della coscienza (morale) del padre della psicoanalisi.13 Per riassumere il punto,14 la coscienza di Freud, il suo Super-io, diviene torturante ogni volta che egli si trova in procinto di realizzare una qualche ambizione, forma sublimata del desiderio di superare il padre. Giusto per dare un’idea della centralità del rapporto edipico fra padre e figlio, si ricordi che ne L’interpretazione dei sogni Freud definisce la morte del padre come la “perdita più straziante nella vita di un uomo”15 e che ancora in Un disturbo della memoria sull’Acropoli, del 1936, tornerà a riflettere su questo conflitto. Questo profondo contrasto tra desiderio egoico di realizzazione e temibile opposizione superegoica si traduce, così ho cercato di argomentare nei citati scritti, in una forte ambivalenza.16
Ora, questa dinamica mi pare si adatti bene alle vicende della nostra lettera della maturità. Nell’ultimo degli stralci riportati, Freud scrive della sua aspirazione a divenire un grande spirito, ma al contempo teme di essere condannato a restare un mediocre come, verrebbe da aggiungere, suo padre che, anni prima, quando un cristiano gli aveva gettato nel fango il berretto per disprezzo verso gli ebrei, senza ribellarsi si era limitato a raccoglierlo.17 Ma non è certo questo il passaggio della lettera da cui possiamo evincere l’ombra paterna. Qui piuttosto scorgiamo un’ambivalenza che ben si realizza non solo nel massiccio ripensamento del capoverso con la cancellazione di un’intera frase, il continuo oscillare tra una persona verbale e l’altra, ma anche nel suo stesso contenuto. Con l’accenno all’autotortura fa inoltre capolino l’intervento punitivo del Super-Io, benché come non più che una semplice e tutta razionale ipotesi.18
Possiamo essere ancora più specifici, tenendo presente che una delle carriere cui aspirava Freud era, come detto sopra, quella di scrittore.19 Questa lettera contiene infatti un passo che ben si adatta alle ambizioni stilistiche letterarie di Freud, espressamente riconosciute già da Walter Muschg nel 1930.20 è esattamente il passo da cui siamo partiti, quello sullo “stile idiotico”: qui, come visto, proprio mentre si accinge a ostentare una prova concreta del suo non essere mediocre, prova consistente in uno stile tanto particolare da avere colpito il suo professore portandolo a scomodare niente meno che il filosofo Herder per poterlo adeguatamente definire, proprio qui lo stile gli viene meno e per stendere una frase sensata è costretto a correggere più volte le sue righe. Il fatto, se sopra ci colpiva come una curiosità, ora può trovare una spiegazione: il monito superegoico vieta a Freud di realizzare le sue ambizioni, di goderne e la punizione, in osservanza alla legge del taglione, va di contrappasso alla colpa: “Se il tuo stile ti eleva sopra la mediocrità di tuo padre, sia esso a vacillare!”. Come già nel precedente passaggio, anche in questo si può cogliere, oltre all’elemento superegoico, il gioco dell’ambivalenza, ben reso da Wolf che sottolinea come Freud racconti l’episodio all’amico “con ironia, benché con orgoglio”21: se l’orgoglio è la diretta espressione della soddisfazione di un’aspirazione, un avvicinamento all’Ideale dell’Io, l’ironia rappresenta un elegante compromesso tra tale fonte di piacere e l’intervento svalutante del Super-Io. Compromesso, tra l’altro, cui Freud ricorrerà molte volte nella vita, anche in situazioni in cui il conflitto non sarà intrapsichico, ma con la realtà.22 Non a caso in questa lettera, non appena l’ironia riesce a ristabilire gli equilibri interni dello scrittore, la scrittura torna, coerentemente, a essere scorrevole: le righe immediatamente successive a quelle dedicate allo stile idiotico,23 sono infatti completamente prive di correzioni e ripensamenti e l’ironia vi circola padrona.
Non resta che completare il nostro percorso a ritroso e riconsiderare rapidamente la (pur presunta) omissione rilevata nel primo stralcio direttamente riportato dall’olografo, quello in cui Edipo viene privato del suo titolo di Re (“König”): Freud, novello Edipo, torturato com’è dal suo Super-Io non può certo ancora incoronarsi re. Non alla maniera di Edipo, uccidendo il padre. E non a caso anche in questo breve passaggio si accumulano gli inciampi della scrittura.
Note
1 Cfr. S. Freud, Briefe 1873-1939 (1960), trad. it. Lettere. 1873-1939, Boringhieri, Torino 1960, p. 4.
2 E. Jones, Vita e opere di Sigmund Freud (1962-1964), 3 voll., vol. I, Il Saggiatore, Milano 1962, p. 47.
3 Id., The Life and Work of Sigmund Freud (1953-1957), 3 voll., vol. I, Basic Books, New York 1953, p. 20.
4 Chi voglia osservare l’intera pagina dell’originale noterà meglio il progressivo rientrare del margine della scrittura di Freud e soprattutto che una correzione simile compare poche righe prima, laddove Freud corregge un “wandten”, “voltammo”, “distogliemmo” in un “verwandten”, “sfruttammo”, “impiegammo”. Che si tratti di una correzione lo dimostra tra l’altro lo spazio altrimenti incomprensibile rimasto tra il prefisso “ver-” e il verbo “wandten”.
5 “Styl” è sua volta sovrascritto ad altra parola; forse si tratta delle prime tre lettere di “Herder” o di “Zb” (“per es.”).
6 Rendo con “anche” l’originale “zugleich”, tralasciato nelle due traduzioni italiane disponibili. Per quanto riguarda le due inglesi, in quella del 1960 viene reso con “incidentally” (“tra l’altro”), mentre in quella del 1969 con “at the same time” (“al tempo stesso”). Cfr. S. Freud, Letters of Sigmund Freud 1873-1939, Basic Books, New York 1960 e id., Some Early Unpublished Letters of Freud, in International Journal of Psychoanalysis, 1969 (50), pp. 419-427. Tra le due, preferisco la prima alla seconda. Quest’ultima indica una sorta di contemporaneità, evidentemente tra la comunicazione del voto del tema di cui Freud ha parlato nella frase precedente e il commento del professore, che lascerei invece sullo sfondo per questo motivo: poco dopo Freud torna a impiegare lo stesso avverbio ma con scrittura separata, “zu gleich”, in un punto in cui necessariamente indica contemporaneità (ho reso con “al contempo”). A mio parere è utile conservare anche nel significato, in questo caso potendolo fare, questa differenza che Freud vuole già a livello grafico e che delle quattro versioni tedesche prese in considerazione solo la trascrizione della Library of Congress conserva.
7 Rendo il “das”, omesso da ben due edizioni tedesche su quattro e poi regolarmente tralasciato da quelle in altre lingue, con “proprio questo” a sottolineare il carattere rafforzativo che esso viene ad avere. Difficile attribuirgli altri ruoli all’interno della frase, in cui, tanto dal punto di vista grammaticale quanto da quello del significato, è altrimenti praticamente inutile.
8 “Schön” nell’originale. Un esempio di “idiotismo”, direi. Avrei tradotto con “bellamente”, non fosse che in italiano tale avverbio ha una troppo marcata connotazione ironica, se non negativa tout court. Mi sono dunque appoggiato all’etimologia del termine, indicata dai fratelli Grimm, che lo vogliono derivante da “anschauen”, “vedere”. Il vocabolo, dall’iniziale significato neutro che aveva, venne poi a indicare qualità positive, come lo sono la chiarezza, la brillantezza di ciò che veniva a cadere sotto lo sguardo. Cfr. J. Grimm, W. Grimm, Deutsches Wörterbuch, (1854-1861), voce “schön”, punto 1.
9 M. Conci, Le lettere del giovane Freud a Emil Fluss (1872-1874), in Rivista di Psicoanalisi, 52(4) (2016), p. 1074.
10 Si osservi, in questa prima proposizione il tipo di anticipazione dell’oggetto discussa parlando degli idiotismi di Freud e che, per essere mantenuta, richiede l’inserimento del pronome “le”.
11 Anche Ilse Grubrich-Simitis, facendo leva su un punto diverso di questa lettera, inferisce che tra questa e quella del primo maggio debba mancarne una. Cfr. S. Freud, Jugendbriefe an Emil Fluß, in id., Selbstdarstellung. Schriften zur Geschichte del Psychoanalyse, Fischer, Francoforte, 2008, p. 119 n. 42.
12 Anche Kurt Eissler, analizzando questo passaggio della lettera, tra le tre ipotesi avanzate da Freud, prende in considerazione solo l’ultima e anch’egli la riferisce senza esitazione al giovane latore della lettera. A differenza mia, che vi vedo, come dirò a breve, una manifestazione del Super-io, Eissler la riconduce a una funzione egoica di severa autoosservazione, Cfr. K Eissler, Psychoanalytische Einfälle zu Freuds “Zerstreute(n) Gedanken”, in Jahrbuch der Psychoanalyse Beihefte, 2 (1974), pp. 120-121. In ogni caso, nel momento in cui definisce “morale-ipocondriaca” tale autoosservazione, a me pare le stia surrettiziamente attribuendo qualità superegoiche.
13 P. Gay, Freud, una vita per i nostri tempi, Edizione CDE, Milano 1988, p. 127.
14 Cfr. M. Lualdi, La radice neurologica, in S. Freud, Studio clinico sull’emiparalisi cerebrale dei bambini, Youcanprint, Tricase 2017, pp. 17-18 e 22-23; M. Lualdi, La strozzatura, in S. Freud, La paralisi cerebrale infantile, Youcanprint, Tricase 2020, p. 43 n. 58 e p. 52; M. Lualdi, Sigmund Freud. Figlio della neurologia, padre della psicoanalisi, in S. Freud, Introduzione critica alla neuropatologia, Youcanprint, Tricase 2020, p. 17 e p. 59 n. 63. In quest’ultimo testo ho seguito anche il ripresentarsi del termine “Qual” (“tormento” o, io preferisco, “tortura”), qui nel composto “Selbstqual”.
15 S. Freud, Die Traumdeutung (1899), trad. it. L’interpretazione dei sogni, in Opere di Sigmund Freud, 12 voll., vol. 3, Boringhieri, Torino 1967, p. 5.
16 Sulla centralità del rapporto edipico con il padre e sulla spinta a divenire il padre, cioè prenderne il posto, si considerino anche le riflessioni brevemente svolte da Mahony sugli aspetti paterni del carattere di Freud e soprattutto del suo ruolo in seno alla psicoanalisi. Cfr. P. J. Mahony, Freud as a Writer, Yale University Press, New Haven 1987, pp. 149-152. Su basi simili ho cercato recentemente di tracciare il percorso che portò Freud dalla neurologia, terra di quei maestri-padri che egli aveva l’abitudine di innalzare a modelli per poi abbattere, alla psicoanalisi, coronando così la spinta pulsionale a divenire padre “indiscusso”… Indiscusso per modo di dire: lo si chiami, se si vuole, karma, Freud si troverà a subire da parte di alcuni “figli” (Adler, Stekel, Jung, Rank, Ferenczi, ecc…) gli stessi attacchi che lui per primo da “figlio” aveva portato ai suoi padri neurologici. Cfr. M. Lualdi, Sigmund Freud. Figlio della neurologia, padre della psicoanalisi, op. cit., pp. 90 e sgg.
17 Cfr. S. Freud, L’interpretazione dei sogni, op. cit., p. 186.
18 Ilse Grubrich-Simitis segnala come in queste lettere sia possibile rinvenire, espressi in un linguaggio colloquiale, concetti che un Freud ormai psicoanalista riformulerà in maniera più solida dal punto di vista terminologico e teorico. Tra essi elenca anzitutto proprio ambivalenza e durezza del Super-Io. Cfr. S. Freud, Jugendbriefe an Emil Fluß, op. cit., p. 105. Preciso però che mentre l’autrice si riferisce ai contenuti delle lettere, io mi riferisco a quanto da esse si può supporre del loro autore. Considero peraltro le due prospettive non come opposte o contrastanti, ma complementari.
19 In particolare ivi, p. 104 e P. J. Mahony, Freud as a Writer, op. cit., p. 9.
20 W. Muschg, Freud als Schriftsteller, in Die psychoanalytische Bewegung, 2(5) (1930), p. 475.
21 E. S. Wolf, Saxa Loquuntur. Artistic Aspects of Freud’s “The Aetiology of Hysteria”, in Psychoanalytic Study of the Child, 26 (1971), p. 550. L’articolo di Wolf è incentrato in particolare sull’analisi stilistica dello scritto di Freud Etiologia dell’isteria (1896). Anche in quel caso documenta le oscillazioni dell’autore rispetto al proprio valore e alle proprie capacità professionali. Riporta inoltre le considerazioni di Max Schur secondo il quale oscillazioni dell’umore tra alti e bassi (in sintonia con stima e disistima di sé) erano piuttosto frequenti in Freud quantomeno fino a fine ‘800. Cfr. ivi, p. 546.
Allo stesso modo Holt coglie, come tratto generale, la sete di fama di Freud, coperta e negata, accompagnata da un costante mettersi in dubbio. Cfr. R. R. Holt, On reading Freud (1973), in Abstracts of The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud, International Universities Press, Madison 1973, p. 39.
22 Si veda ad es. M. Lualdi, Freud e la Gestapo.
23 “… lo faccio sapere a Lei, che finora non si era accorto di scambiare lettere con uno stilista della lingua tedesca. E ora Le consiglio: non come persona interessata ma come amico: conservi, raccolga, custodisca le mie lettere: non si sa mai!”. Cfr. S. Freud, Le lettere del giovane Freud a Emil Fluss (1872-1874), op. cit., p. 1068.