FILOSOFIaGRADO 8 settembre 2013 ore 15
Presentazione del n. 359 di “aut aut” sulla “Potenza del falso”, a cura di Damiano Cantone.
In prima battuta devo giustificare la presenza di psicanalisti tra i filosofi che si sono impegnati a dedicare un intero numero della loro rivista alla potenza del falso. Devo farlo perché sono ragionevolmente sicuro che la maggior parte dei presenti ignora quanto la pratica psicanalitica sia pervasa – direi addirittura invasa – dalla potenza del falso, secondo la bella espressione di Damiano Cantone. Devo addirittura precisare che il falso che abita la psicanalisi è sì una potenza, ma non è in potenza. Quello psicanalitico è un falso in atto e presente in numerose varianti nei fenomeni della cura psicanalitica; non esagero dicendo che il falso ne costituisce il nerbo.
Ecco un breve elenco.
L’amore di transfert, che l’analizzante sviluppa per l’analista, è un amore ambiguo, mescolato all’odio; è un amore falso; sicuramente più falso dei cosiddetti amori spontanei; secondo Freud l’amore di transfert non è amore, ma è resistenza al procedere del lavoro analitico di scavo nell’inconscio. “Chi non lavora non fa l’amore”, diceva una canzonetta. In analisi si fa l’amore per non lavorare, cioè per non procedere nella cura.
I sintomi nevrotici sono falsi godimenti; sono godimenti sostitutivi, diceva Freud; sono godimenti regolarmente mescolati alla sofferenza psichica; ecco ancora una volta il falso, che arriva a essere tanto falso da forzare il soggetto a chiedere l’aiuto di un analista per uscirne.
I sogni – dice ancora Freud (tra parentesi: i miei riferimenti a Freud non sono casuali; io sono e resto freudiano anche quando critico aspramente Freud sul piano scientifico) – sono false realizzazioni di desiderio; realizzano il desiderio in modo così spostato e deformato da renderne regolarmente irriconoscibile da parte del soggetto la soddisfazione.
E i ricordi? I ricordi sono quasi sempre falsi ricordi, che coprono i veri ricordi da riscoprire – il termine freudiano è “costruire”, talvolta ex novo – con il lavoro di analisi. I ricordi sono ricordi di copertura, diceva Freud.
Ci sono, poi, le false associazioni di idee e le false performance, i cosiddetti lapsus freudiani, che proprio perché sono falsi, attraverso il falso riescono talvolta a dire il vero malgrado l’intenzione del soggetto di celarlo; addirittura, il lapsus direbbe quel vero che il soggetto non sa di sapere. Freud lo chiamava inconscio.
Per non dire dell’inconscio stesso, che è un falso sapere in quanto è un sapere che non sa di se stesso.
Allora si pone un problema non facile: come concepire tutto questo falso che nasce dalla pratica psicanalitica? Come si pensa il falso?
In generale, dal punto di vista filosofico, in particolare dal punto di vista ontologico, il falso è impensabile in quanto contraddittorio; letteralmente, il falso non si può pensare, perché dal punto di vista ontologico si può pensare solo il vero in quanto non contraddittorio. Nel Teeteto Platone lo fa dire a Socrate: “Sembra impossibile opinare alcunché falsamente” (188c). Nella seconda giornata del Dialogo sopra i massimi sistemi, Galilei lo fa dire all’aristotelico Simplicio: “La scienza è de’ veri e non de’ falsi”, e ribadisce: “Delle cose che io tengo false non credo di poterne saper nulla”. Allora, come ce la caviamo noi psicanalisti con il falso che ci riguarda tanto da vicino e che pratichiamo? Come ne facciamo la teoria?
Freud era radicale su questo punto. Nel Compendio di psicanalisi, pubblicato postumo, Freud dichiarava l’impossibilità di una teoria logica dell’inconscio, affermando: “L’inconscio è il regno dell’Unlogik, dell’illogica”. Lo diceva perché nell’inconscio convivono moti pulsionali contraddittori, cioè “falsi” dal punto di vista della logica tradizionale.
Pur essendo e rimanendo freudiano, su questo punto non concordo con Freud. Io non credo che il falso sia intrattabile; credo che abbia una sua logica e che entro certi limiti si possa trattare logicamente, senza cadere in contraddizione. Se sono qui a parlarne è perché lo credo. Credo che il falso, in particolare il falso psicanalitico, possa essere trattato scientificamente. Certo, non lo si può trattare con la logica classica – parmenidea e/o aristotelica, chiamatela come preferite – dell’essere che è, e perciò è vero, e dell’essere che non è, e perciò è falso. Infatti, in una logica dove il falso è equiparato al contraddittorio vale il teorema dello Pseudo-Scoto: ex falso quodlibet, dal falso si deduce tutto e il contrario di tutto.
Ma se la logica classica non ci è di molto aiuto, con quale logica possiamo affrontare il falso? Esistono e sono possibili altre logiche?
Per rispondere a queste domande, dobbiamo avvicinare il naso alla logica ontologica, che ha avuto una lunga e onorata vita e non è stata ancora del tutto rottamata. Dalla formulazione aristotelica del iv secolo a.C., negli Analitici primi e secondi, arriviamo alla logica fregeana e booleana del XIX sec., la stessa che in due versioni distinte ma equivalenti, una assiomatica e l’altra algebrica, fa funzionare i nostri computer.
I principi cardine della logica ontologica sono tre e ben noti: il principio di identità, il principio di non contraddizione e il principio del terzo escluso. Tutti e tre i principi sono principi logici che regolano l’apofantica o l’enunciazione del vero e del falso. Ne dico brevemente qualcosa in termini metalogici.
Il principio di identità regola l’atto dell’affermare: l’enunciato A non può avere altro valore di verità che quello che ha; se è vero ha il valore vero, se è falso ha il valore falso; l’enunciato A non può mai essere contemporaneamente enunciato come vero e come falso.
Gli altri due principi regolano l’atto del negare; per il principio di non contraddizione l’affermazione di A e la negazione di A non possono essere entrambe e contemporaneamente enunciati veri; per tale logica il contraddittorio, inteso come congiunzione dell’affermazione e della negazione, diventa l’emblema del falso. Simmetricamente, per il principio del terzo escluso, A e non A non possono essere entrambi e contemporaneamente enunciati falsi. Faccio di sfuggita notare, non potendo sviluppare il punto per carenza di tempo, che la logica classica è una tipica logica della contemporaneità; non prevede la funzione del tempo logico, tanto finemente individuata da Lacan, come funzione di transizione dall’incertezza alla certezza.
Questa logica, perfetta nella sua struttura e completa nelle sue funzioni apofantiche o dichiarative, secondo Kant nacque già adulta, armata di ogni rigore dimostrativo e non ulteriormente perfezionabile, dalla testa di Aristotele, come Atena dalla testa di Giove. In effetti, è una logica che serve perfettamente alle esigenze dell’ontologia. Se era perfetta, qualche autore provò allora a renderla meno perfetta o più debole, magari per adeguarla a esigenze non ontologiche, proprio agendo sui suddetti tre principi ontologici (che, tra parentesi, la logica classica dimostra essere equivalenti).
L’esempio più clamoroso fu quello di Hegel, che sospese il principio di non contraddizione e inventò la logica dialettica; era una logica che sembrava adattarsi bene alle vicende dei processi storici, dove a un fenomeno segue, per reazione, il suo contrario e poi la loro sintesi o “compromesso storico”.
Il tentativo di pensare una logica temporale era in sé apprezzabile, i risultati un po’ meno. La fenomenologia dello Spirito è l’incarnazione di questa logica storicistica, che discutibilmente si conclude, dopo aver attraversato tutte le contraddizioni temporali, istaurando la figura dello Spirito Assoluto: un risultato super-ontologico, paradossale se si pensa che la logica dialettica intendeva indebolire la logica ontologica.
Il mio maestro, Jacques Lacan, tentò di fondare una logica disidentitaria, sospendendo il principio di identità, il quale non vale per i significanti dell’inconscio, che non rappresentano se stessi ma il soggetto per altri significanti. I risultati non furono strabilianti, tanto che il curatore dei seminari lacaniani, Jacques-Alain Miller, non ritenne opportuno pubblicare il seminario sull’identificazione, dove Lacan aveva tentato questa prova.
Del tutto diverso il tentativo del matematico olandese Luitzen Egbertus Brouwer, insigne topologo, che forse proprio dalla topologia nel 1908 trasse l’ispirazione di sospendere il terzo principio della logica ontologica: il principio del terzo escluso, insieme al principio della doppia negazione esistenziale. Secondo questo principio, dalla non esistenza dell’elemento che non soddisfa il predicato P si deduce che tutti gli elementi soddisfano il predicato P. Per Brouwer sia l’enunciato positivo A sia l’enunciato negativo non A potevano essere entrambi enunciati falsi.
Un esempio? Ne esistono a bizzeffe; basta convocare l’infinito, non quello potenziale di Aristotele ma quello in atto di Spinoza. Considera l’espansione decimale attualmente infinita di π. Sia A l’enunciato: “Nell’espansione decimale di π ricorre la sequenza di 10 cifre 0123456789”. In linea di fatto, A è falsa, perché tale sequenza non è stata ancora stanata (che io sappia); ma, in linea di principio, anche la negazione di A è falsa, perché non è stato a tutt’oggi dimostrato che tale sequenza non esiste. Le due affermazioni tra loro opposte di esistenza e di non esistenza sono entrambe indimostrate, una di fatto e l’altra di principio, quindi sono entrambe false. Ho trovato un controesempio che falsifica il principio del terzo escluso. Faccio notare che le espressioni da me usate: “non ancora” e “a tutt’oggi”, sono espressioni temporali. La logica di Brouwer promette di essere una logica del tempo di sapere ben più pertinente della logica dialettica di Hegel, che è una logica del tempo di essere o divenire. Ne ho parlato nel mio ultimo libro, intitolato Il tempo di sapere. Saggio sull’inconscio freudiano, edito da Mimesis, Milano 2013, a cui rimando.
Abbrevio il discorso. Questa logica, che sospende il principio del terzo escluso, fu definita da Brouwer intuizionista; il suo tratto caratteristico è di non essere una logica ontologica, ma epistemica. Il vero, inteso in senso intuizionista, non è ciò che è, quindi è identitario, ma ciò che è dimostrato; il falso, inteso in senso intuizionista, non è ciò che non è, quindi è contradditorio, ma ciò che non è ancora dimostrato (l’avverbio apre alla dimensione temporale). Il vero è tale se sa di essere vero, grazie a una dimostrazione effettiva; il falso manca di tale sapere, cioè è falso perché manca della dimostrazione che lo dimostri vero.
C’è un antecedente nobile di questa logica: è la logica cartesiana, di cui parlerà dopo di me Renato Moglia. È la logica con cui esordisce il metodo di Cartesio, il quale considera inizialmente falso tutto ciò che è solo verosimile, in quanto carente della dimostrazione cogente. Questa logica ha un preminente carattere costruttivo – Cartesio diceva fattizio. Per dimostrare intuizionisticamente l’esistenza di un certo ente, non basta dimostrare che la sua esistenza non implica la contraddizione (allora, ontologicamente parlando, la sua esistenza è necessaria), ma occorre costruire un modello – meccanico, idraulico, semantico o quel che volete – dove quell’ente topologicamente “abita”.
Il carattere epistemico della logica intuizionista ne fa una logica adatta a ricapitolare la Unlogik dell’inconscio freudiano, proprio perché l’inconscio è un sapere, anche se il suo soggetto non sa di saperlo. Non posso diffondermi oltre su questo punto. Dico solo che nella logica intuizionista, per come è costruita, esistono enunciati che sono tesi classiche ma non intuizioniste, per esempio proprio il principio del terzo escluso o il principio della doppia negazione, per cui negare due volte equivale ad affermare (rimando al mio libro citato, dove mostro che a partire da tali tesi si possono definire operatori epistemici, inclusi gli operatori di desiderio) che godono di tipici teoremi freudiani; ne cito solo due, per me i principali: è impossibile non sapere (desiderare), perché esiste sempre un sapere, anche se non sai di saperlo; se non sai (se non desideri), allora sai (desideri), proprio come il soggetto cartesiano che dubitando di tutto non dubita di esistere.
Da ultimo, dò notizia del fatto che in tale logica non vale l’argomento ontologico dell’esistenza di Dio; l’intuizionismo offre la possibilità di dire che Dio, se esiste, è già morto, insieme all’ontologia che ne predica l’esistenza necessaria. Risultati non banali questi, che derivano da una certa tolleranza nei confronti del falso, il quale non è più ostracizzato dal discorso come impensabile.
Io avrei finito qui la mia presentazione. Se aggiungo ancora due parole, prima di passare la parola a Renato Moglia, è per riaprire il discorso.
Il mio contributo al numero 359 di “aut aut”, che stiamo presentando a Grado, ha un titolo bizzarro, che mi tocca giustificare. È formulato con una triplice o e termina con dei puntini di sospensione: O contraddittorio o non dimostrato o… La prima alternativa è quella del falso ontologico, che sta alla base dei vecchi e nuovi realismi, da Aristotele ai giorni nostri. La seconda alternativa, che sviluppo di più, è quella del falso scientifico. La scienza – e lo dico per sfatare un luogo comune messo in circolazione dal positivismo di due secoli fa e corroborato dalla giusta reazione fenomenologica – non è il luogo delle certezze incontrovertibili e dogmaticamente recepite. La scienza si fa per congetture, che sono enunciati epistemicamente falsi, da sottoporre non alla conferma, ma alla confutazione, cioè all’azione che le dimostra false. A che scopo? Nessun altro che generare altre congetture, cioè altri falsi, ulteriormente da falsificare. Nel mio saggio insisto di più sul falso epistemico che sul falso ontologico, perché il mio intento, anzi la mia speranza, è dimostrare che un giorno la psicanalisi possa far rientrare la propria Unlogik nei ranghi del discorso scientifico.
E mi fermo qui. La terza o fa presentire che esiste una terza possibilità, ma non la sviluppa. Quale? L’estetica. Se esiste un falso non ontologico e non epistemico è proprio il falso estetico, cioè il bello. Io non ho gli strumenti adeguati per sviluppare questo discorso, ma so che si può fare. Quindi è stato più con piacere che con sorpresa che ho constatato che il punto è stato sviluppato da diversi autori intervenuti nel numero, dallo stesso curatore a Sandro Dal Lago e Serena Giordano che hanno magistralmente affrontato il tema del falso nell’arte.
A dimostrazione, contro Platone e Aristotele, contro la metafisica in generale, che la potenza del falso è feconda di nuovi pensieri.
Grazie per la vostra attenzione.
Antonello Sciacchitano