Per inaugurare un’azione politica, è consigliabile formulare prima una teoria, almeno parziale, di ciò che si sta per fare. Infatti, senza teoria c’è solo impolitica, come dimostra l’attuale disastrosa situazione italiana.
La considerazione preliminare, che qui propongo, è che la dimensione antipsichiatrica sia inerente a qualunque pratica di psichiatria, anche a quella più anodina. Non le viene aggiunta dall’esterno, ma sta al suo confine, come l’ombra sta al confine del corpo. Accettato il presupposto topologico, cerco di precisarne i contenuti.
L’antipsichiatria denuncia la filiazione medica della psichiatria, già iscritta nella sua stessa etimologia e, a tutti gli effetti, incancellabile. L’anti dell’antipsichiatria non cancella la connotazione medica della psichiatria, come la negazione freudiana non sempre nega. La psichiatria entra irreversibilmente in campo medico appena accetta di sottomettersi e conformarsi all’atto medico per eccellenza: la diagnosi, che è anche l’atto specifico della medicina. Diagnosi, prognosi e cura, è questa la trimurti medicale, dove l’ordinamento delle tre divinità è stretto: non c’è cura senza diagnosi; non c’è terapeuta, se non c’è stato prima il bravo diagnosta. Viceversa se c’è diagnosi, c’è medicina; in pratica in psichiatria c’è diagnosi, quindi la psichiatria è essenzialmente medicina, anche quando lo è suo malgrado, proponendosi come antipsichiatria.
Cosa diagnostica la psichiatria? Una cosa sola: la follia nel folle. C’è in proposito un’osservazione molto acuta di Michel Foucault all’inizio della seconda parte della sua Storia della follia, nel capitolo intitolato Il folle nel giardino delle specie. Da Cartesio in poi la diagnosi di follia nel folle è semper certa, come la madre, anche se, paradossalmente, non si sa cosa sia la follia. Qualunque nosografia della follia non afferra il proprio argomento ed è destinata a chiudersi a vuoto su se stessa: dalla nosografia di Philippe Pinel a quella del DSM-5 si ripete sempre la stessa vacuità. Classificare la follia è come classificare l’essere. Con l’essere ci provò Aristotele con il metodo analogico, poi Porfirio con l’albero dei generi e delle specie, poi un filosofo che presumeva di distinguere l’essere dagli enti, invano. Con la follia idem. Follia ed essere restano inclassificabili, ontologicamente. L’atto medico non coglie né l’uno né l’altra, anche quando ci prova applicando i criteri eziopatogenetici classici, che nel caso psichiatrico diventano dei faux semblants. Però l’atto medico dello psichiatra riconosce il folle; lo giudica come tale in modo inappellabile e lo condanna alla reclusione o alla cura farmacologica, trattamenti che a loro volta producono patologia dove prima non c’era.
Ebbene, non è una contraddizione ma un paradosso. Quando lo psichiatra si appresta a diagnosticare la follia nel folle compie sì un atto medico, ma a vuoto, quando non è intrinsecamente dannoso e lesivo per la personalità del folle. Da qui la ribellione dell’antipsichiatra, anch’essa purtroppo vana. Boicottare il DSM-5 non serve a molto. Si resta con un pugno di mosche in mano.
Cosa potrebbe servire?
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Da qualche anno, in collaborazione con Davide Radice, mi dedico alla ricostruzione della quaestio disputata intorno al concetto freudiano di Laienanalyse, l’analisi laica. La nostra posizione è espressa nella nuova traduzione commentata della Questione dell’analisi laica di Freud, pubblicata a Milano da Mimesis nel 2012.
Riassumo brevemente la posizione di Freud, che è giusto riconoscere come originariamente antipsichiatrica. Freud parte da una definizione apparentemente categorica. Dimenticando che nell’inconscio la negazione non sempre nega, afferma che i laici sono i non medici. L’analisi laica è l’analisi condotta da non medici, come traduce Cesare Musatti, sebbene non alla lettera.
Tutto filerebbe liscio, se non che… “innanzitutto c’è la questione della diagnosi”. È lo stesso Freud ad ammetterlo davanti al proprio interlocutore nel VII capitolo del pamphlet citato. Come si fa diagnosi di “nevrosi”? Come si distingue il sintomo nevrotico da quello organico? Come si può essere sicuri che si può applicare la terapia psicanalitica invece di una terapia organica?
A queste domande il “laico” non può in linea di principio rispondere, perché non ha la competenza medica, anche se di fatto saprebbe rispondere meglio del medico. Allora il laico deve chiamare a consulto il medico. A quel punto, nel momento esatto in cui il medico consultato formula la diagnosi e per il fatto stesso che una diagnosi è stata formulata, la psicanalisi laica diventa, suo malgrado, anche se esercitata da un non medico, un atto medico. In Italia, la psicanalisi laica è un’azione formalmente perseguibile come reato, del genere dell’esercizio indebito della professione medica.
Da qui la debolezza dell’argomentazione di Freud contro i medici che eserciterebbero la psicanalisi senza specifica preparazione. Se a monte c’è la diagnosi nosografica, anche l’atto psicanalitico diventa un atto medico; non c’è scampo; non c’è laicità possibile; non c’è autonomia dall’incombente perentorietà della medicina. Per essere convincente l’argomentazione di Freud avrebbe dovuto dissociare la psicanalisi dalla medicina, ponendo in secondo piano l’atto diagnostico. Ma Freud non rinunciò mai alla “scienza medica”, l’unico appiglio che secondo lui giustificava la psicanalisi come cura delle nevrosi. I suoi epigoni non furono meno freudiani di lui.
Analogamente, non rinunciano alla “scienza medica” sia i fautori sia i detrattori del DSM. I quali commettono tutti lo stesso errore di Freud: considerano la medicina una scienza. E la scienza sarebbe codificata nel manuale diagnostico.
Non sto facendo il processo a nessuno. Sto analizzando le posizioni teoriche correnti tra psichiatri e antipsichiatri. Ritenere che la medicina sia una scienza, e in quanto tale codificata nel libro, è una fallacia comune, che va incontro al bisogno popolare di certezze (di ipnosi?). Se la medicina è una scienza, la sua pratica non è ciarlataneria, anche se è psichiatrica. Il senso comune identifica nella scienza la garante e la certificatrice del vero, un po’ come la religione che ha le sue certezze nelle sacre scritture. I paramenti sacri della scienza medica sono il camice bianco dei suoi sacerdoti e, attualmente, le pesanti bardature tecnologiche che arredano le nostre strutture sanitarie. Questa fallace epistemologia ignora o vuole deliberatamnete ignorare che la scienza moderna è in gran parte congetturale; si basa, infatti, su assunti indimostrati, da cui l’uomo di scienza trae conseguenze probabili, anche quando sono talvolta altamente probabili. (L’unico criterio di scientificità di una congettura è che sia feconda di altre congetture). La medicina non è scientifica proprio perché non è congetturale. Parte da principi certi – codificati nelle direttive ministeriali – e li applica a finalità terapeutiche. La medicina è essenzialmente finalistica, come la scienza moderna a cessato di esserlo da Cartesio in poi.
Detto questo, all’obiettore dei vari DSM cosa resta da fare?
Una cosa molto semplice, in teoria, ma difficile, difficilissima, in pratica: tagliare i ponti con la medicina e con la sua falsa epistemologia basata sul principio di ragion sufficiente, che stabilisce che la causa determina l’effetto e ogni effetto ha una causa; nel caso, l’agente morboso produce l’effetto della malattia e la terapia, contrastando l’agente morboso, cura la malattia, ripristinando lo stato premorboso di salute. La follia non rientra in questo schematismo eziologico; la follia, come l’essere, ha la sua ragion d’essere che la ragione non intende. Dedicarsi a un altro “intendimento” della parola del folle, senza coartarla in qualche casella nosografica, ecco un nuovo compito che l’obiettore del DSM potrebbe darsi, lasciando il DSM nelle mani dei medici, perché ne facciano ciò che il discorso dominante – quello delle assicurazioni e delle case farmaceutiche – ritiene profittevole e conveniente.
Sì, è un’ingenuità, lo ammetto. Quanti medici o psichiatri sarebbero disposti a lasciarsi alle spalle il proprio titolo professionale, il reddito che ne ricavano e il decoro sociale che garantisce loro, magari per diventare dei semplici “ciarlatani” o “strizzacervelli”, addirittura perseguibili penalmente?
Ma, ripeto, non sto facendo il processo a nessuno; il mio discorso teorico è la premessa a un’azione politica collettiva; non si ferma a denunciare il tornaconto o le responsabilità individuali, che sono innegabili.
L’operazione di demedicalizzazione che sto qui proponendo è un’impresa formidabile, fuori dalla portata del singolo individuo, isolatamente considerato, ammesso che riesca a concepirla. Abbozzata la teoria occorre passare alla politica. Teoria e politica insieme stanno e insieme cadono. Nel caso, occorre un’azione politica che crei un collettivo di pensiero dove coloro che teorizzano la natura non medica, veramente laica, della cura psichica si ritrovino, si sostengano reciprocamente e propongano alla collettività più ampia un modo laico di affrontare e trattare la follia. La follia non è un morbo sacro e non abbiamo bisogno di un Ippocrate che ce lo dimostri. La follia è l’essere che sfugge alla presa del sapere. Per affrontare la follia non basta il sapere codificato nei manuali, che ne parlano pudicamente come psicosi variamente classificabili. Non basta che Freud promuova una psicanalisi esercitata da psicanalisti non medici; non basta promuovere una psichiatria senza iatròs. Volendo sfruttare l’occasione psicanalitica offertaci da Freud, occorre inventare una pratica di cura originariamente non medica, cioè non basata sulla diagnosi nosografica; occorre proporre alla società civile una “cura psichica” non sottoposta ai controlli professionali d’uso nella cura medica, a cui partecipino tutti i soggetti politici con tutto il loro sapere. Purtroppo nulla di tutto ciò si profila oggi all’orizzonte. Gli psicanalisti hanno persino proposto un loro Manuale Diagnostico Psicodinamico, ricalcato sul DSM, come se avessero paura di abbandonare il corrimano della medicina.
Altro che boicottare il DSM! Sarebbe come boicottare la Bibbia.
Sembrerebbe che oggi, in un mondo in continua e rapidissima trasformazione che propone un ventaglio di identità differenti al posto del vecchio ‘Io’ freudiano, le uniche certezze siano divenute le malattie e i loro sintomi, cui ogni ‘paziente’ si aggrappa come a una scialuppa per non perdersi nell’indefinitezza esistenziale e, al contempo, respingendone la proprietà e delegandone la cura al medico. Ha quindi buon gioco la cultura tecno-medicalistico-farmacologica, sempre più invasiva e assolutizzante, che smercia risposte preconfezionate e anestetizza così il dolore del vivere.