Al Freud che abbiamo rimosso è intitolato il numero 379 di aut aut e la giornata di studio che gli è stata dedicata in Febbraio presso la Casa della Psicologia a Milano.
Viene da pensare che per fortuna la psicanalisi è lì, a disposizione e chiunque può occuparsene come preferisce: anche i filosofi.
Leggendo i testi della rivista, oltre ad alcuni eccessi di torsione di certi concetti, forse al fine di piegarli meglio alla dimostrazione delle proprie tesi, situazioni alla fine assolutamente comprensibili, sono rimasto colpito da un paio di “cose”:
- Una sorta di volontarismo percorre tutto l’approccio al pensiero di Freud, a partire dall’accenno a questa rimozione che noi saremmo in grado di operare. Si è indotti a pensare a un’impronta, appunto filosofica, in una certa contraddizione con il concetto di inconscio e che fatalmente approda a un conformismo che traspare dall’idea, qua e là proposta, di una qualche correttezza (politica?) che dovrebbe guidare anche la psicanalisi. Essendo il mio solo un sorvolo generico del volume, manca, per adesso, il modo di dimostrare il mio assunto: però esso vi è.
- In secondo luogo mi sembra vi sia un tentativo di sfrondare Freud delle parti più sulfuree, quelle che meno piacciono, per arrivare a una sorta di summa, corretta e quindi accettabile da tutti, del suo procedere. Per esempio: “Se rileggiamo con attenzione…”: un incipit solenne che indica come in realtà ognuno legga Freud a modo proprio e quindi non si possano accontentare tutti se non a prezzo di qualche lacerazione di troppo.
Naturale che ognuno possa leggere Freud a modo suo.
La psicanalisi non ha padroni: di solito questo significa che solo noi lo leggiamo con attenzione, gli altri chissà.
Però nemmeno Freud è il padrone della psicanalisi e neppure ne è il padre, come propone a volte una vulgata un poco banale e trasandata.
Nessuno ha generato la psicanalisi che è emersa da persone che qualcuno riuscì ad ascoltare perché pensò che occorresse ascoltare le persone che parlano. Per meglio dire: che occorresse imparare ad ascoltarle mentre parlavano, senza volerle inserire in un quadro universale già predisposto.
Questo qualcuno, in fondo, pensò che i libri non parlassero realmente delle persone, anche se ne avevano l’aria e magari anche l’intenzione, ma parlassero piuttosto di coloro che li avevano scritti: “Madame Bovary c’est moi”.
Geniale.
Quanto precede mi serve a indicare la debolezza ontologica del costrutto filosofico che riduce la psicanalisi a esperienza della quale discutere come si può fare di tante altre.
La psicanalisi è in realtà un’esperienza e non può essere altrimenti, ma è un’esperienza fortemente strutturata da qualcosa di artificiale, la relazione analitica, costituita da quello che una persona dice a un analista e da ciò che questi farà di quanto gli viene detto. Così scrive Jacques Lacan e ancora oggi io lo sottoscrivo.
Non c’è psicanalisi senza psicanalista e non vi è psicanalista senza analizzante.
Parlare e scrivere di psicanalisi si può ma non è la psicanalisi, non è l’esperienza dell’inconscio che lo psicanalista fa, giorno dopo giorno, nella relazione divano/poltrona.
La componente essenziale si incontra sul divano dell’analista e solo lì. L’inconscio non è nei libri, la pulsione non è nei libri, il transfert, così come la vita con le sue torsioni e contorsioni, non è nei libri.
Veramente pensiamo che Freud naufraghi sullo scoglio della guarigione (come scrive Ilaria Papandrea nel suo intervento vivace e intelligente) o non piuttosto sul tentativo di costringere la vita nei limiti di uno schematismo teorico dal quale essa continuamente deborda?
Nessun analista può costringere la realtà nei limiti di nessun apparato teorico per quanto complesso e sofisticato: non si può inserire l’essere umano in una cornice prefabbricata, sia essa freudiana o lacaniana o bioniana.
Neppure una cornice filosofica.
Intendiamoci: da un lato è bene che i filosofi si interessino alla psicanalisi. Vi portano la precisione del linguaggio che li caratterizza e che i medici e gli psicologi in genere non hanno nel loro procedere a spanne. D’altro canto però, facendo il proprio mestiere, i filosofi si pongono in una prospettiva epistemica completamente estranea a quella psicanalitica. Ci si può trovare facilmente di fronte a uno di quei rassicuranti deserti di nobili parole, sempre scritte con la maiuscola, che avvicinano l’uomo di cultura al vasto continente del conformismo.1
Peraltro l’impronta medica del marchingegno inventato da Freud a cavallo della fine del secolo si è progressivamente attenuata sia in relazione agli sforzi (e agli insuccessi) da lui profusi, sia per l’apporto di Jacques Lacan e di Wilfred Bion, i soli che abbiano realmente portato contributi decisivi a una rimodulazione della psicanalisi: ne hanno rispettato l’impianto di base allargandone però l’impostazione concettuale.
La clinica, quella pratica che così chiamiamo, si occupa di malattie ma la vita non è malata e la psicanalisi, oggi, della vita si occupa, in tutte le sue manifestazioni che non stanno scritte da nessuna parte, anche se molti ne scrivono e molto se ne scrive.
Chi si ammala semmai sono gli esseri umani, ma questo fa parte della vita che, ribadiamolo se non fosse chiaro, non è contenuta nei libri, neppure in quelli di Freud, ma a lato scorre.
Apro una parentesi un poco eccessiva: nei libri dei filosofi la vita spesso perde la varietà delle sue forme nello sforzo di mettere a fuoco l’universale.2 Forse questo fa parte di quel processo evacuativo che, secondo Elias Canetti,3 caratterizzerebbe il pensiero filosofico e su cui non è qui il caso di insistere. Invece preme sottolineare come la questione del linguaggio e della sua precisione non basti di per sé a giustificare l’approccio della filosofia alla psicanalisi, impedendo per ciò solo di contestarne la competenza.
A volte, una certa “altissima densità teorica” copre l’assoluta inconsistenza psicanalitica.
Peraltro, cercando anche di essere giusti con la filosofia, occorre segnalare come nelle mani dei filosofi la psicanalisi si trasformi opportunamente in una Weltanschauung.
Questo non sarebbe a mio avviso sbagliato, pur se in contrapposizione alla visione freudiana della quale si dovrebbe discutere (ma qui manca il tempo), ma da lì in poi essa è sottoposta a ogni genere di speculazioni linguistico-etimologiche, di antica radice, che ai nostri tempi forse solo Martin Heidegger è riuscito a superare in assurdità.
Per concludere.
Curiosamente, nel ricordato numero di aut aut, l’unico che si cimenti veramente con la dimensione “clinica” della psicanalisi è Davide Radice, un filosofo che vi si occupa del transfert, argomento da divano se ve ne è uno.
Giudiziosamente e forse prudentemente vi allude anche Antonello Sciacchitano con la sua metanalisi, un modo di attirare l’attenzione su quello che, non essendoci, potrebbe esserci.
La psicanalisi non è medicina ma non è neppure è filosofia.
Non è medicina perché la vita, non essendo mai stata malata non vuole guarire.
Ma non è neppure filosofia e certi incipit solenni cui ho già fatto cenno (prego credere: solo un esempio, nulla di personale), pur indicando che ognuno legge Freud a modo proprio del tutto legittimamente, impongono però di chiedersi: fin dove?
- Freud e Platone
- Freud e Deleuze
- Freud e Derrida
- Freud e Heidegger
- Freud e…
Ma è possibile un analista senza analizzante? Non aveva ragione invece Lacan: Freud e Dora, Freud e Anna O., Freud e Hans, Freud e l’uomo, dei topi e dei lupi, Freud e la miriade di analizzanti che ne hanno fatto un analista e non un filosofo?
Il senso dell’opera di Freud non si misura nel contenuto dottrinale della sua opera, ma nell’azione da lui esercitata sulla lingua, mai più la stessa dopo di lui.4
Da psicanalista non filosofo, condivido la citazione. E l’affermazione.
A partire dall’esperienza quotidiana del divano.
Note
1 S. Petrosino, Contro la cultura. La letteratura, per fortuna, Vita e Pensiero, Milano 2017.
2 Ivi, p. 17.
3 Ibidem.
4 Roland Barthes citato in S. Petrosino, Contro la cultura. La letteratura, per fortuna, op. cit., p. 20.