FILOSOFIaGRADO 8 settembre 2013
Presentazione del n. 359 di ”aut aut” sulla “Potenza del falso”, a cura di Damiano Cantone.
Per affrontare l’argomento ho provato ad adottare un non metodo. Mi sono concentrato sul secolo (il XVII, il secolo Barocco), in cui Cartesio ha operato, ha vissuto la sua vita particolare, rocambolesca. Il XVII secolo fu l’epoca in cui si formò la sua figura di intellettuale assolutamente moderno. Cartesio non era un chierico, non era un servitore di potenti, non fu precettore di nobili imberbi (se si eccettua un allievo di eccezione come Caterina di Svezia, con la quale si confrontava alla pari). Era un nobile che poteva vivere di rendita, un rentier; non pietì mai (vedi Kant) una cattedra universitaria; quindi non fece alcuna carriera accademica; non insegnò mai in un’università. Insomma, fu un outsider, che si muoveva in un ambito che chiamerei protointernet. Per Cartesio e altri intellettuali affascinati dallo sviluppo della scienza moderna, internet era una persona, era Padre Mersenne: un frate che faceva da server, da collettore, smistatore di una intensa corrispondenza intellettuale. Mersenne era il server di una rete di protoemail, una rete aperta anche ai non accademici o ai chierici.
Cartesio è passato alla storia (alla storia tout court e non solo quella filosofica) per un enunciato lapidario, che chi ha frequentato il liceo non dimentica: Cogito ergo sum; è la sua etichetta, il suo marchio di fabbrica.
Ma nella prima parte del mio scritto mi sono concentrato su un altro enunciato cartesiano, meno famoso, ma per me molto intrigante; si tratta del famoso Larvatus prodeo (“avanzo mascherato”). Nelle sue Cogitationes privatae, il Nostro scrive:
“Come gli attori, perché il rossore della vergogna non appaia loro in volto, vestono la maschera, così anch’io sul punto di salire su questa scena mondana, di cui fin qui fui spettatore, avanzo mascherato.”
Su quale proscenio sale Cartesio? E ci sale da spettatore, uno spettatore informato, preparato da anni di formazione gesuitica. Cartesio sale sulla scena della metafisica aristotelico-platonica; si presenta e, con la sua maschera indosso, afferma qualcosa di inaudito. È come se un attore salisse sul palco e dicesse che il teatro, qual è stato fino ad allora, è morto. Cartesio sale sul palco del teatro filosofico e afferma che la metafisica è finita, non è più. Tutto ciò dopo essere stato per lunghi anni spettatore interessato delle e dalle rappresentazioni. La mia congettura è che per Cartesio la maschera sia stata funzionale, oltre che protettiva, relativamente all’inaudito, alla novità che esprimeva al suo auditorio.
Dopo essere stato per lunghi anni spettatore, perché mascherarsi? Nel seminario del 3 giugno 1964, Lacan si chiedeva cosa cercasse Cartesio con quella maschera addosso: cercava la certezza. Per Cartesio è certo ciò che è indubitabile, che resiste all’azione del dubbio. Per Cartesio la logica aristotelica e la metafisica imparata sul manuale di Suarez rendevano evanescente l’oggetto. La metafisica muore quando si riduce a pratica senza oggetto.
Il dubbio di Cartesio è un metodo, una discesa con risalita assicurata, a patto di cambiare l’assetto, la carrucola, la logica. Il dubbio cartesiano è uno smascheramento radicale e per poterlo annunciare al mondo la maschera è d’obbligo. Con il dubbio Cartesio conquistava una certezza soggettiva; per proteggerla e proteggersi doveva mascherarsi di volta in volta, da ontologo, teologo, dualista, razionalista, meccanicista etc., perché la certezza cartesiana era sovversiva, implicava un nuovo statuto di verità. La verità raggiunta da Cartesio è di fatto l’antecedente storico della logica intuizionista di Brouwer, cui accennava Sciacchitano. Il dubbio cartesiano non è un dubbio ontologico, è un dubbio epistemico. Non si chiede se il mondo è vero o è falso, se c’è o non c’è. Piuttosto si chiede: “Se so, da dove so? Come so? Che certezza ha il mio sapere? E il mio non sapere?”
Un passo indietro. L’episteme antica si fondava sulla certezza dell’essere, sulla stabilità ontologica: “Io so perché sono. E so più o meno a seconda di come sono, ovvero di quanto partecipo conoscitivamente all’essere.” La verità con Cartesio non è più categorica, non è più necessariamente vera. Cartesio attua una rotazione: la predominanza passa dall’ontologia all’epistemologia. Dopo Cartesio, “Sono perché so (con certezza) quel poco che so”. È il sapere che costruisce ipoteticamente (in modo non categorico) l’essere in quanto oggetto. Insomma, l’essere c’è perché c’è un soggetto che sa qualcosa e non viceversa. Qui si apre tutta la filosofia moderna e contemporanea. Lo scrive anche Hegel nelle Lezioni di Storia della Filosofia, affermando che Cartesio è l’eroe mitico della filosofia moderna (anche se riconduce questa grandezza agli altrettanto mitologici inizi ontologici della filosofia greca).
Cartesio fu confutato più volte nel corso dei secoli: per il suo platonismo, per l’innatismo, per il meccanicismo, per il dualismo, etc. Volete fare soldi? Volete un po’ di celebrità? Scrivete un libro sulle fallacie di Cartesio! Capite ora perché Cartesio doveva proteggersi: la sua verità rivoluzionaria lo costringeva alle maschere. Era un’epoca pericolosa la sua: la libertà cartesiana – quella di pensare – ai suoi tempi era un lusso a volte mortale. Allora, la teologia gestiva il monopolio della verità, che era una e trina, categorica, rivelata, immutabile, dottrinaria, inconfutabile. Questa verità stabilizzata nei secoli prosperava nei sistemi dottrinari. E le dottrine non si confutano, si commentano. Se il commento è sbagliato, si parla di eresia e quindi di una nuova dottrina. Ancora oggi, i sistemi dottrinari, siano essi filosofici, psicanalitici, politici o morali, nulla hanno a che fare con la scienza moderna in quanto sono inconfutabili. La scienza moderna, di contro all’episteme antica, vive di confutazioni; una congettura è ritenuta vera fino a confutazione. La potenza del falso è il motore della scienza; la verità si riapre quando io dimostro falsa la tua teoria e tu falsifichi la mia.
Riapriamo la porta sulle maschere di Cartesio: sale sul palcoscenico mascherato; a che fare? A pensare; dietro quella maschera ci sono dei pensieri. Per lo psicanalista la questione sembra più semplice: la maschera, dice, serve a giocare l’altro e a prenderlo nella rete del godimento e della perversione. Ma sul palco Cartesio – è un po’ ossessivo – ha in mente un solo pensiero: l’infinito, l’infinito moderno del matematico, limitabile con assiomi, che poco ha a che fare coi giochi perversi. Le maschere cartesiane piuttosto veicolano falsi pensieri per gli altri, sono maschere dissimulative per tacitare i teologi, i fisici aristotelici, i signori della Santa Inquisizione, i Gesuiti e i Simplicio che lo assillavano. La dissimulazione è una pratica passiva, cautelativa, un nascondimento, un celare allo sguardo – e alla mannaia – dell’altro il proprio pensiero. Cartesio è costretto a questa mascherata, che è un esercizio retorico di altri pensieri a protezione di un nascente statuto scientifico della verità.
Il soggetto moderno è costretto a salire sul palco, ad apparire, a esporsi allo sguardo dell’altro. È proprio l’apparire, inteso come denominatore universale degli oggetti in quanto fenomeni, che introduce la questione della fallacia nella rappresentazione d’oggetto. La vecchia certezza ontologica traballa, la nuova certezza epistemica è “debole”, la questione si rivela decisiva in un secolo che non smette di interrogarsi sulla possibilità di un dio mendace e ingannatore.
Insomma – e concludo sulle maschere – Cartesio ha utilizzato le maschere delle sue fallacie non per godere dell’inganno altrui, piuttosto per celare e contrabbandare la sua rivoluzione epistemica, il piccolo guadagno derivante dal dubbio: il cogito, ovvero la certezza soggettiva dell’io pensante: se penso, ego existo, ego sum.
Dicevo che Cartesio introduce il soggetto moderno: il soggetto della scienza. Di questo soggetto sono stati trascritti tanti copioni ontologici: i più importanti sono quelli di Leibniz, Kant, Hegel, Husserl, Heidegger. In tutti questi copioni il Nostro viene ricondotto a una problematica ontologica; si è, cioè, voluto negare, rimuovere, fuorcludere il fatto che con Cartesio la metafisica diventa epistemologia, perché la verità non preesiste più al sapere, ma consegue, quando consegue, ad esso. Se nella metafisica precartesiana la verità è un a priori, da Cartesio in poi la verità non esiste più prima della sua costruzione; non è più ex ante, ma diventa ex post.
La morale di Cartesio, e qui mi avvio a concludere, infatti non è prescrittiva, non viene né dedotta dall’alto, dal cielo dei valori eterni, né indotta empiricamente dal basso, dai comportamenti maggiormente utili. È la morale par provision e, se è chiaro che in Cartesio c’è un disegno razionalista per cui questa morale provvisoria nei desideri del Nostro era chiamata a governare il passaggio dalla ragionevolezza soggettiva alla razionalità universale, è altrettanto chiaro che questa morale è diventata l’etica che il soggetto della modernità non può più abbandonare. È provvisoria, ma nella sua provvisorietà è definitiva, nel senso che il provvisorio è definitivamente conquistato, se così si può dire. I suoi esiti ci sono, ma sono dati alla conoscenza solo a posteriori: è il tempo della Nachträglichkeit, direbbe Freud. Si tratta di un’etica epistemica. Il soggetto finito del sapere, con un sapere finito, deve affrontare problemi etici infiniti.
Viene messa in soffitta la logica aristotelica, per cui se credo qualcosa come falso non posso crederlo contemporaneamente vero; la logica cartesiana ci proietta in uno spazio postaristotelico: tutto è in movimento. Se non posso credere vero, non posso neanche credere falso. È proprio Pier Aldo Rovatti ad operare un aggancio in questo senso nella Posta in gioco. Si apre un’indeterminatezza, siamo proiettati in un tempo-spazio postaristotelico che richiede una logica intuizionista che non esclude più il terzo escluso, ma che anzi lo include, come dice va prima Sciacchitano. Ci troviamo nel nuovo spazio di una logica non binaria che accetta il falso come vero non ancora esplicitato o come vero sorpassato. Questa logica apre le porte al lavoro di un’estetica costruttivista, anch’essa ipotetica. Chiudo ricordando che il dubbio cartesiano è la condizione di questa logica, di questa verità ipotetica e delle sue performance estetiche. Il dubbio, insomma, non è una negazione, ma è un’alternativa epistemica: o so o non so; in entrambi i casi abbiamo un soggetto che sa (di sapere o di non sapere). È questo il ribaltamento che, mascherato come certi trapezisti, ha operato Cartesio.
Due ultime cose, che mi riportano alla questione della presenza di psicanalisti tra filosofi. Freud applica una non piccola estensione al dubbio di Cartesio: “io non so di sapere, ancora”; la micidialità di questo “ancora” è il segno indelebile dell’inconscio freudiano. Freud, dopo Cartesio, pone un’altra questione: “C’è un sapere che io non so ancora di sapere?” Così Freud introduce la questione del tempo logico, cioè del tempo in cui vengo a sapere quel che non sapevo di sapere. Per Lacan, invece, il sapere è il sapere dell’Altro. Lacan fa entrare qui in gioco relativamente al sapere la questione della intersoggettività, del soggetto collettivo, attraverso il cosiddetto soggetto supposto sapere. Una finzione epistemica, quindi attraverso un “falso”, che innesca il vero processo del venire a sapere.
Grazie per la vostra attenzione.
Renato Moglia
Cristina di Svezia, non Caterina.
Giusto per la verità…
bravo … mi era sfuggito … nella lettura … e finì in gloria col cianuro del cappellano francese di Cristina ?